Niels Bohr, da portiere a Nobel
Un ruolo – quello di estremo difensore – che ha sempre affascinato grandi pensatori e letterati come Albert Camus (altro Nobel) e Vladimir Nabokov; e persino un papa: Karol Wojtyla
Nel vasto universo della Fisica, il nome di Niels Bohr evoca la figura di un gigante. Premio Nobel, pioniere della meccanica quantistica, Bohr è stato un protagonista assoluto della scienza del Novecento. Ma c'è un aspetto della sua vita che non appare nei trattati scientifici: la sua passione per il calcio, uno sport che ha praticato con grande trasporto e dedizione da ragazzo nel ruolo di portiere, da ultimo baluardo di una difesa a volte troppo teorica, spesso però distratto da pensieri che sconfinavano nel mondo della matematica.
Bohr nasce a Copenaghen nel 1885, in una famiglia intellettuale e benestante. Fin da giovane mostra una mente brillante e una profonda curiosità per il mondo, interessi che però non escludono lo sport. Insieme a suo fratello Harald, di due anni più giovane, condivide la passione per il calcio e si unisce al prestigioso Akademisk Boldklub (AB), il club universitario della città. Entrambi sono promettenti, ma Harald, dotato di un talento naturale, si afferma rapidamente come attaccante. Niels, invece, sceglie la porta, un ruolo solitario che in fondo rispecchia la sua indole contemplativa.
Tra i pochi episodi documentati della breve carriera calcistica di Bohr, uno emerge per il suo carattere quasi leggendario. Si narra che, durante una partita contro la squadra tedesca del Mittweda, Niels fu protagonista di una scena alquanto surreale. Mentre i suoi compagni lottavano sul campo, lui, in un momento cruciale, rimase immobile davanti alla porta, assorto nei suoi pensieri. “Riflettevo su un problema di matematica”, dichiarò poi, e il tiro dell’avversario, una parabola lenta, lo colse completamente di sorpresa, finendo in rete senza che lui potesse opporre alcuna resistenza. Un episodio che, per quanto comico, segnò la sua carriera di portiere e l’allontanò dai sogni di gloria calcistica.
In quella partita finì per subire la bellezza di 18 reti. Alla fine del primo tempo, mentre il punteggio era ormai irrecuperabile, Bohr scherzò con i giornalisti: “Io lavoro meglio sotto pressione, e durante la partita vi erano le condizioni ideali per pensare”. Bohr non si limitava a difendere la porta: ne faceva un’estensione del suo pensiero scientifico.
Se Niels poi pensò fosse il caso di allontanarsi dal calcio per dedicarsi totalmente alla scienza, il fratello Harald proseguì la sua attività agonistica ottenendo risultati più che lusinghieri, fino a far parte della nazionale danese e a rappresentare il suo
Paese alle Olimpiadi di Londra del 1908. In quella storica prima partita internazionale della Danimarca, Harald segnò due gol nella vittoria per 9-0 contro la Francia B, aiutando la squadra a conquistare la medaglia d’argento. Ma anche Harald, una volta conclusa la carriera calcistica, seguirà la strada accademica, diventando un matematico di spicco e fondatore dello studio delle funzioni quasi-periodiche.
In un aneddoto riportato dalla biografia di Niels (Abraham Pais, Il danese tranquillo. Niels Bohr: un fisico e il suo tempo, Boringhieri 1993), quando il fisico fu ricevuto dal re di Danimarca, Cristiano X, quest’ultimo lo scambiò per Harald, lodandolo per le sue doti calcistiche. Niels, con una schiettezza sorprendente, lo corresse: “Mi spiace, ma temo che Vostra Maestà si riferisca a mio fratello”. Con una lieve irritazione, il re si limitò a concludere l’udienza con un laconico: “Audiensen er jorbi!” (L’udienza è tolta!). Come si sa a quei tempi era impensabile contraddire un re.
E così, archiviati i sogni calcistici, il talento trovò nella Fisica e nella ricerca il terreno ideale per sbocciare. Dopo anni di studi, Bohr sviluppò un modello dell’atomo che rivoluzionò la comprensione scientifica, gettando le basi della meccanica quantistica. Per questi studi, ricevette il Premio Nobel per la Fisica nel 1922, contribuendo a una nuova visione dell’universo.
Bohr fondò a Copenaghen un istituto di ricerca in cui giovani fisici da tutto il mondo venivano accolti in un ambiente libero e stimolante. Il suo spirito di apertura e il suo approccio generoso resero questo luogo una fucina di idee e innovazioni. Il fisico danese amava interrompere le lunghe serate di lavoro con una visita al cinema, dove si dilettava con i film western, affascinato dalla dinamica tra “buoni” e “cattivi” che cercava persino di spiegare con leggi psicologiche.
Tra i molti grandi fisici con cui Bohr ebbe occasione di interagire, Albert Einstein occupa un posto speciale. I due si incontrarono per la prima volta a Berlino nel 1920 e, nonostante le divergenze scientifiche, svilupparono un rapporto di reciproca stima. Anni dopo, Einstein scrisse a Bohr: “Poche volte, nella vita, una persona mi ha dato tanta gioia con la sua sola presenza… anche se non riesco ancora a credere che Dio giochi a dadi con l’Universo”. La frase, pur trasudando il disincanto di Einstein verso l’indeterminatezza quantistica, evidenzia la profondità del loro legame. Bohr è oggi ricordato come uno dei più grandi fisici del Novecento, una mente che ha saputo esplorare i misteri dell’atomo e dare un contributo fondamentale alla scienza moderna. Ma il suo passato da portiere e il suo modo di essere ci rivelano anche un uomo dallo spirito curioso e ironico, capace di osservare la realtà con lo sguardo attento di chi sa bilanciare sogno e ragione, intuizione e rigore.
Quello del portiere in fondo è sempre stato un ruolo ruolo che ha sempre affascinato grandi pensatori e letterati, il caso di Niels Bohr non costituisce affatto un caso isolato. La storia ci mostra infatti che tra coloro che hanno scelto di interpretare questo ruolo troviamo uomini del calibro di Albert Camus e Vladimir Nabokov, mentre altri grandi autori come Peter Handke e Luis Sepulveda ne hanno scritto nelle loro opere. Forse la posizione del portiere rispecchia un certo tipo di carattere: il portiere osserva, riflette e attende, come chi vive una continua tensione tra azione e pensiero.
Nella grande arena del calcio, ogni ruolo ha la sua parte in scena, ma nessuno, come quello del portiere, incarna il dramma della solitudine e dell’attesa. Il portiere è un po’ attore, un po’ filosofo, e quando si muove sembra esplorare uno spazio che va oltre il rettangolo di gioco.
EDUARDO GALEANO - Splendori e miserie del gioco del calcio
È facile pertanto arrivare a capire perché questa figura enigmatica abbia affascinato letterati, filosofi, e pensatori e ricercatori di ogni sorta come lo stesso Niels Bohr. Lo stadio, per loro, è un teatro di sfide dove il tempo sembra sospendersi tra un’attesa e l’altra, come in un’opera di Beckett: il pallone potrebbe arrivare da un momento all’altro, o potrebbe non arrivare affatto. Il portiere, che osserva il gioco da dietro, dall’ultimo baluardo, vive la partita come un lento costruirsi di possibilità, mentre si appoggia al palo o sfiora la rete, assaporando un’esclusiva solitudine che nessun altro in campo può conoscere. Albert Camus, Premio Nobel per la Letteratura, fu uno dei primi a riconoscere questa connessione profonda tra il portiere e la dimensione più
esistenziale del gioco. “Quel poco che so della morale l’ho appreso sui campi di calcio e sulle scene del teatro, che resteranno le mie vere università”, scrisse in un articolo pubblicato su “France Football” (dicembre 1957). Cresciuto tra i campi in terra battuta di Algeri (difese la rete della squadra universitaria), Camus scelse il ruolo di portiere, non per sfuggire al sudore e all’azione, ma per guadagnarsi un punto di osservazione diverso. In quei campi di polvere e sacrificio, imparò cosa significava opporsi a un destino che incombe, a restare ultimo quando tutto sembra perduto. Il portiere è, come lo scrittore, una sentinella: non può evitare
l'errore e conosce il sapore amaro del fallimento. Ma è anche capace di volare, di tendersi sotto la traversa in una tensione che racchiude tutta la sua volontà di opporsi. Luis Sepúlveda, nel raccontare il ruolo dell'estremo difensore, parla della sua
solitudine, della strana intimità che il portiere sviluppa con i pali della sua porta, come fossero amici fedeli in una lunga attesa.
“Ci sono molte situazioni letterarie nel calcio: forse la più letteraria è quella della solitudine di chi aspetta il tiro”, riflette. Ma aggiunge un’altra immagine: il portiere solo, quando la squadra gioca nella metà campo opposta. “Cosa starà pensando?” si chiede Sepúlveda. Il portiere, infatti, è spesso immerso in una contemplazione assorta, mentre accarezza i pali o si tocca i guanti, quasi per verificare che tutto sia al proprio posto. È un rito di concentrazione, un modo per connettersi alla propria forza interiore prima di essere chiamato all’azione.
Uno dei portieri più sorprendenti è stato Karol Wojtyla, il futuro Papa Giovanni Paolo II. Da giovane nella sua Wadowice in Polonia, anche lui scelse di giocare tra i pali in occasione dei “derby” con gli amici di religione ebraica e amava il ruolo per la calma che gli permetteva di riflettere. E forse proprio questa capacità di osservare le cose del mondo da lontano, di attendere e di intervenire quando necessario, ha accompagnato Wojtyla nel corso della sua vita.
Il portiere è così l’ultimo difensore che spesso deve risolvere situazioni di crisi improvvise. Un uomo solo, spesso paragonato a un filosofo o a un poeta, che si trova a contemplare il gioco e, al tempo stesso, a dover intervenire al momento giusto. Il ruolo, come la scienza, richiede rigore, calcolo e intuizione. E, come nella scienza, la possibilità dell’errore è sempre in agguato, pronta a ricordare all’uomo la sua fallibilità.
Sebastiano Catte *
* Articolo pubblicato sul Magazine di Letteratura sportiva "LA CODA DEL DRAGO" vol. 7 (2024)